PROBLEMI DEL MATERIALISMO STORICO 3.0
1. UNA TEORIA DELLA STORIA
Il materialismo storico si presenta come una teoria della storia e strumento di comprensione del presente, ma proprio per questo pone alcuni problemi che devono essere approfonditi. Ciò che segue si propone di richiamare l’attenzione su tali questioni sia nel merito che nel metodo, suggerendo possibili linee di approccio alla loro formulazione ed approfondimento. Quanto al metodo, si intende qui seguire quello scientifico, almeno in linea generale, cioè nella misura in cui è applicabile a contenuti storici. Il presente saggio si propone dunque di vagliare il materialismo storico sottoponendolo al filtro del metodo scientifico e constatare quanto di esso sotto questo profilo rimane valido, quindi se è logicamente coerente e se regge il confronto con l’oggettività, cioè con i dati empirici.
Prima di entrare nel merito è necessario richiamare alcune nozioni sul metodo scientifico. Cioè occorre ricordare che una teoria non ha bisogno di giustificazioni, ma solo di conferme, il che non significa dimostrazioni. Una teoria non si può dimostrare, perché essa stessa è posta a priori come lo strumento che nel campo considerato fornisce tutte le dimostrazioni come deduzioni dai suoi postulati o principi. Se queste corrispondono ai fatti si ha una conferma della teoria e i fatti trovano in essa la loro spiegazione. Ma la teoria è costituita da una serie di ipotesi derivata da un insieme di fatti allo scopo di spiegare questi e una cerchia più ampia di fatti. Ovviamente più sono le conferme, più la teoria è attendibile, ma non vera in senso assoluto, poiché occorre tenere ben fermo che nessuna verifica è di per sé conclusiva, in primo luogo perché può essere sempre smentita da nuove verifiche, poi perché una verifica sulle sole conseguenze non è di per sé probante rispetto all’antecedente, in quanto un stesso fatto può essere il risultato di più cause diverse. Quindi ogni teoria formale ha una sua legittimità in quanto tale, alla sola condizione di essere logicamente coerente e fattualmente verificabile, ma non può mai essere considerata vera. Perciò una teoria, una volta formulata, può e deve essere applicata alla realtà empirica alla ricerca del maggior numero di conferme possibili, nessuna però conclusiva. Neanche in caso di smentita, perché può sempre essere parzialmente modificata in modo di includere tale caso. Pertanto, l’ultimo criterio di legittimità è probabilistico, ma ciò per una teoria storica, il cui contenuto è la vita degli individui, diviene un criterio non oggettivo ma soggettivo, quindi una scelta pratica. Per un comunista il materialismo storico è una scelta di parte, ma rimane pur sempre una teoria, quindi soggetta al vincolo di essere in grado di spiegare o prevedere fatti nuovi.
Precisato questo, le critiche che si possono muovere al materialismo storico dal punto di vista del materialismo scientifico sono di due tipi. Da una parte occorre riconoscere che, dato il carattere del campo d’indagine, il materiale empirico disponibile è sempre limitato, opinabile, raramente esaustivo, e ciò per il fatto che di storia ve n’è una sola, come una sola è l’umanità. Inoltre non si possono fare esperimenti, a meno che non si voglia considerare tale l’intervento attivo e cosciente nella storia. E tanto meno è possibile ripeterli. Ancor più quando, come avviene nel materialismo, si considerano periodizzazioni molto ampie.
L’altro tipo di critica è di carattere formale, in quanto il secondo aspetto della teoria, dopo il suo rapporto con il materiale empirico, è la sua struttura logica. In particolare una teoria, se vuol essere di qualche utilità, deve essere più semplice dei fatti che descrive. Cioè deve essere riduzionista, vale a dire che deve ridurre una molteplicità di fatti a pochi e semplici principi generali da cui possono essere dedotti. Il materialismo storico non ha questo carattere. Anzi Marx respinge ogni teoria generale, che considera semplice filosofia della storia, e dichiara esplicitamente che ogni processo storico deve essere analizzato di per se stesso, escludendo che la storia possa ripetersi. Questo può essere vero, ma se si esclude la possibilità di verificare che cause uguali determinano uguali effetti, cade la possibilità di fare un discorso scientifico. Ma poiché è proprio questo che intendiamo verificare non accogliamo questa obiezione. Per il momento rileviamo soltanto che nel materialismo storico mentre la causa delle transizioni è semplice e univoca, cioè lo sviluppo delle forze produttive, la loro dinamica è piuttosto complessa. E’ il caso del passaggio al comunismo, che si presenta come un caso particolare, cioè come un evento la cui spiegazione che si applica solo a questo caso specifico. Si tratta delle cosiddette ipotesi ad hoc, che ampliano l’insieme dei principi fondamentali. Tuttavia, come si è detto, questo tipo di critiche se possono suscitare dei dubbi, non invalidano una teoria in quanto il criterio di verità del metodo scientifico non permette di enunciare verità assolute. Ma questi rimaneggiamenti della teoria hanno un loro prezzo, cioè quello di accentuare il carattere descrittivo della teoria, riducendone così quello ipotetico-deduttivo, cioè quello propriamente scientifico.
Ma ciò non invalida la teoria, solo la rende più debole. Quindi i limiti entro i quali il materialismo storico può essere considerato valido sono quelli di ogni teoria. Una teoria deve solo essere coerente formalmente e verificabile empiricamente, ciò nella misura più ampia possibile. Poiché il materialismo storico è una teoria, quindi un discorso di portata generale, esso può e deve applicarsi alla storia contemporanea, misurarsi con tutti i dati disponibili e mostrare di essere in grado di interpretarli. Quindi deve potersi applicare al presente e proiettare nel futuro, perché la verifica di una teoria sta proprio in ciò, la sua capacità di applicarsi a dati nuovi, al di là di quelli su cui è stata elaborata la teoria stessa.
Il passaggio al comunismo è la questione cruciale, perché rappresenta la previsione più importante di questa teoria riguardo la storia futura. Si può affermare che il materialismo storico è una teoria che deduce i suoi principi da tutta la storia passata al fine di derivare da questi una ipotesi fondamentale, cioè la fine della società di classe e l’avvento del comunismo. Quindi vuole derivare dalla storia delle rivoluzioni passate quella delle rivoluzioni comuniste. Ma la rivoluzione comunista si presenta come un caso a sé fra i mutamenti sociali, in quanto essa pone fine non solo al capitalismo ma a tutto il più ampio ciclo storico delle società di classe. Per cui tale rivoluzione deve avere speciali caratteristiche. Le classi devono essere solo due. Di conseguenza è proprio la classe direttamente antagonista quella che deve operare la transizione. Inoltre la classe rivoluzionaria deve essere portatrice di nuove forze produttive. Tutte queste condizioni di transizione sono in contraddizione con il materialismo storico, quindi con la storia passata. Pertanto occorre in primo luogo ammettere che la teoria è incompleta e deve essere integrata in modo che la transizione ad opera della classe direttamente dominata sia possibile e che questa classe sia progressiva. Cioè le rivoluzioni proletarie non hanno precedenti, quindi, poiché le leggi generali del materialismo storico sono dedotte dai precedenti storici, esse devono costituire una eccezione rispetto a tali precedenti. Sostanzialmente nella versione classica la teoria non prevede una rivoluzione comunista. Tuttavia ciò non significa che si debba lasciar cadere la teoria, ma semplicemente che occorre modificarla, cioè interpretare diversamente i dati della storia.
Il materialismo storico
Definiti i concetti fondamentali: (D1) divisione del lavoro: cooperazione fra i produttori produzione di beni nella forma della scomposizione del processo di lavoro e affidamento di ciascun segmento ad un singolo produttore; (D2) forze produttive: forze del lavoro sociale, dirette (divisione del lavoro) e indirette (mezzi di produzione), caratterizzate dalla loro produttività; (D3) modo di produzione: modo in cui è organizzato il lavoro sociale; (D4) classe sociale: insieme di individui che svolge un medesimo ruolo nella divisione del lavoro; e (D5) rapporti di produzione: rapporti fra le classi nella divisione del lavoro, - il materialismo storico è costituito essenzialmente dai seguenti presupposti: (P1) esiste un nesso causale tra forze produttive e rapporti di produzione per cui questi sono determinati da quelle (principio di oggettività sociale); (P2) le forze produttive esistenti possono essere sostituite da altre e ciò avviene ad opera di una classe specifica (principio di soggettività); (P3) i rapporti di produzione sono tendenzialmente statici (principio di inerzia), per cui i loro mutamenti seguono con un certo ritardo rispetto quelli delle forze produttive, in misura tale da ostacolarne lo sviluppo; (P4) i rapporti di produzione (struttura) determinano tutti gli altri rapporti sociali (sovrastruttura): politici, giuridici, culturali (principio di azione). Da questi principi si deducono svariate derivazioni, le più importanti sono le seguenti. La classe che crea nuove forze produttive, superiori a quelle esistenti, poiché così trasforma i rapporti di produzione e quindi tutti i rapporti sociali, compie ciò a proprio vantaggio divenendo così la classe dominante. Quindi, (C1) una classe è rivoluzionaria solo se è portatrice di nuove forze produttive (principio della classe progressiva). Queste forze sono nuove solo in quanto lo sono qualitativamente, perché solo in questo caso possono dar luogo a nuovi rapporti di produzione quindi a nuove produzioni intellettuali. Infatti, nel caso di uno sviluppo meramente quantitativo il rapporto di produzione rimane invariato e si espande solo quantitativamente in conseguenza dell’espansione delle forze produttive. Quindi (C2) Una transizione rivoluzionaria è possibile solo se si ha uno sviluppo delle forze produttive qualitativo. (C3) Uno sviluppo quantitativo da luogo solo a mutamenti sovrastrutturali. (C4) Il pensiero dominante è quello della classe dominante ed è un pensiero apologetico dell’esistente e una concezione falsa del mondo, quindi una rappresentazione ideologica (principio della falsa coscienza). (Cfr. Ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1983, pp.9, 11, 12, 26-30, 51, 52, 56, 59, 60, 63; Manifesto del partito comunista, I; Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1973, pp.34, 94, 104, 105, 113, 114-122, 141; Per la critica dell’economia politica, Introduzione, Editori Riuniti, 1974, pp.5-6; Grundrisse, Formen).
I principi sono dedotti da osservazioni empiriche. Marx perviene a formulare una teoria generale della storia prendendo in esame principalmente la transizione dal feudalesimo al capitalismo, ma anche il precedente passaggio dallo schiavismo al feudalesimo. Nella prima transizione la classe rivoluzionaria è la borghesia ed il settore economico nel quale opera è la grande industria. Quello dominante nella società feudale è invece l’agricoltura, dove il rapporto di produzione fondamentale è quello tra l’aristocrazia dei latifondisti e i contadini nullatenenti, cioè il rapporto di servitù. Ma vi è anche quello, allora secondario ma destinato ad evolversi, che nell’artigianato cittadino e in generale nella borghesia, a quell’epoca ceto feudale, lega maestro ed apprendista. Infatti un nuovo rapporto di produzione succede alla servitù, quello capitalistico, cioè il rapporto di lavoro salariato, che la borghesia estende a tutta l’economia, nell’agricoltura sostituendo il rapporto di signoria e servitù con l’affittanza e il bracciantato, e soprattutto nell’industria. Conquistato in tal modo un ruolo egemonico nell’economia, la borghesia può abolire i privilegi dell’aristocrazia, cioè il suo potere politico, non più fondato su un ruolo economico progressivo. Il fatto notevole è che la dissoluzione dell’aristocrazia non fu il risultato delle endemiche rivolte dei contadini. Lo scontro decisivo fu essenzialmente un regolamento di conti fra borghesia e nobiltà, culminato nella Grande Rivoluzione. Tale momento venne ripetutamente rinviato, essenzialmente perché le condizioni storiche non erano mature. I movimenti ereticali del XIII secolo, la Riforma e le guerre di religione nel XVI e XVII secolo, insieme alle rivoluzioni olandese e inglese, preparano tale momento. Ma in tutti questi eventi i contadini ebbero un ruolo marginale.
La decadenza della società antica è il secondo caso esemplare considerato da Marx, ma qui le cose andarono diversamente. Anche in questa fase le rivolte della classe subordinata, quella degli schiavi, non portarono mai ad un superamento di tale forma sociale, essa decadde da sè ad un livello di sviluppo materiale e culturale barbarico dando origine alla società feudale, dissoluzione che è il riferimento storico della “comune rovina delle classi in lotta” (Marx, Manifesto) come possibile esito della lotta di classe. La nuova classe dominante venne dall’esterno e si sostituì a quella esistente, senza mutare il modo di produzione, che continuò ad essere fondato sull’agricoltura.
Nel materialismo storico questi cicli storici sono paradigmatici e lo riassumono per l’essenziale. Ma considerando questi dati storici ed integrandoli con altro materiale empirico, si osserva che in tale teoria, se la causa generale della transizione, cioè il nesso tra forze produttive e rapporto di produzione, è chiaramente determinata, non si può dire altrettanto per le gli aspetti particolari della transizione. Cioè, viene delineato chiaramente il carattere della società in via di trasformazione, cioè le sue condizioni di crisi ma non le condizioni della transizione a quella successiva, soprattutto per quanto riguarda il passaggio al comunismo. Come si configura allora in generale la questione della transizione, in particolare quella al comunismo? Chiarire tale questione è di vitale importanza per la teoria, sia sotto l’aspetto pratico, ovviamente, ma anche per quello teorico perché concerne la coerenza e capacità di previsione della teoria, elementi fondamentali per determinarne la validità.
La teoria riduce a sistema tutta la storia finora trascorsa disegnando un grande quadro sintetico da cui si deducono alcune tendenze che divengono ulteriori elementi della teoria. Si può innanzitutto affermare che il corso storico è determinato dai modi di produzione finora sviluppati, che a grandi linee sono, nell’ordine, la caccia e raccolta, l’agricoltura e pastorizia, l’industria. I rapporti di produzione materiali corrispondenti sono: il lavoro collettivo (cooperazione semplice), il lavoro servile (schiavismo e servitù della gleba), il lavoro salariato, il lavoro autogestito. Le corrispondenti forme della proprietà, la forma giuridica (sovrastrutturale) dei rapporti di produzione, sono la proprietà collettiva della terra, la proprietà fondiaria privata, la proprietà privata mobiliare, proprietà collettiva del lavoro. Le forme politiche ad essi connesse sono l’organizzazione gentilizia, la città stato (repubblica oligarchica) o l’impero dinastico, lo stato di diritto, l’associazione dei produttori. Le contraddizioni specifiche, derivanti dall’inerzia sociale, sono quelle tra le diverse forme di proprietà, cioè tra le classi corrispondenti: prima tra proprietà collettiva e proprietà privata della terra, poi tra proprietà mobiliare e proprietà immobiliare, ed infine tra proprietà mobiliare e proprietà del lavoro sociale.
Tali contraddizioni mettono in moto le dinamiche sociali secondo le seguenti fasi. Agli albori della storia troviamo gruppi tribali a struttura gentilizia che vivono in una economia di caccia e raccolta su di un territorio che ciascun gruppo si è appropriato in competizione con altre tribù, terra di cui rivendica collettivamente la proprietà. Con il passaggio all’agricoltura accade che la proprietà collettiva non è più adeguata al nuovo modo di produzione, cioè ostacola la messa a coltura intensiva del territorio, per cui nasce la proprietà privata, inizialmente clanica, poi sempre più ristretta al capoclan ereditario e alla sua famiglia e infine proprietà privata individuale, che si colloca accanto alla proprietà collettiva o terra comune, ponendosi in contraddizione con essa. Con l’agricoltura nasce anche lo schiavismo, già esistente marginalmente nella famiglia allargata, in quanto ora la terra produce un surplus rispetto alla riproduzione del lavoro impiegato, per cui la forza lavoro acquisisce un valore. Da questi due eventi, apparizione della proprietà fondiaria privata e dello schiavismo, consegue la nascita della società di classe. Prima si ha la sedentarizzazione della tribù, inizialmente come villaggio, poi man mano che si sviluppa la proprietà privata dalla fusione di più villaggi sorge la città fortificata, residenza della classe proprietaria e riparo in caso di guerra, ciò che permette la nascita di un artigianato indipendente dall’economia famigliare, e del commercio. Con la nascita dell’agricoltura la conquista di un territorio e la sottomissione della popolazione ivi residente permette ai vincitori di appropriarsi una fonte di ricchezza permanente, quindi di stabilirsi sulle terre acquisite. Pertanto nei rapporti tra popoli si passa dalla razzia e sterminio, o cacciata degli sconfitti, all’asservimento dei vinti e all’insediamento permanente dei vincitori nei loro territori. I conquistatori divengono la classe dominante, i vinti che hanno perso la terra e la libertà, continuano a coltivarla per conto dei nuovi proprietari, che si stabiliscono nelle città dalle quali dominano i villaggi del contado (anche se in un primo tempo possono insediarsi nella campagna). Quindi il modo di produzione agricolo genera come rapporto di produzione dominante il rapporto servile e due classi egemoni: l’aristocrazia latifondista e guerriera, e la classe produttiva, che è in rapporto con la prima nella forma della schiavitù, o della servitù, una schiavitù attenuata, e infine due forme di stato: la città stato e l’impero. L’antagonismo fra le classi si manifesta con ribellioni ricorrenti dei servi, che però mai giungono a rovesciare l’ordine sociale vigente. La dinamica sociale è invece quella della sostituzione di una classe dominante con un’altra di nuova formazione, in generale in seguito ad una conquista, che espropria quella precedente, in parte fondendosi con essa, ciò che si manifesta sul piano politico nell’impero come semplice cambio di dinastia, oppure nelle città stato del patriziato oligarchico come cambio del gruppo egemone, lasciando inalterata o quasi la condizione della classe subordinata e il modo di produzione. Sostanzialmente ancora per lungo tempo etnia e classe sono categorie intercambiabili.
Ciò che segna la fine di tale ciclo storico stagnante è lo sviluppo all’interno di tale formazione sociale di un nuovo fattore economico, la ricchezza mobiliare, sviluppo a sua volta collegato prima all’usura e al piccolo commercio connesso alla divisione del lavoro dei mestieri, infine a una nuova forza produttiva: la divisione del lavoro manifatturiera. Sviluppo che determina l’espandersi del commercio e la nascita del sistema di fabbrica, la generalizzazione del rapporto di produzione salariato e l’affermazione delle classi corrispondenti, la borghesia e il proletariato. Tale nuova forma di ricchezza, generata dalle nuove forze produttive, entra infine in contraddizione con la ricchezza immobiliare, legata alle vecchie forze produttive. Poiché quest’ultima è volta alla produzione di valore d’uso ed al consumo, l’altra all’accumulazione di valore di scambio, il valore di scambio entra in contraddizione con il valore d’uso, cioè si verifica in modo accentuato il fenomeno del ritardo nell’adeguamento del rapporto di produzione allo sviluppo delle forze produttive. Pertanto la borghesia si scontra con l’aristocrazia e nasce la società borghese che infine sconfigge e assorbe la società aristocratica. La borghesia giunge così a realizzare ciò che nessuna rivoluzione agraria era riuscita a ottenere, la fine dell’aristocrazia, ma compie questa impresa instaurando una nuova società di classe. Infatti dopo di ciò il contadino si proletarizza e nasce un nuovo antagonismo tra le classi vittoriose, borghesia e proletariato, cioè tra le nuove forme di proprietà, mobiliare e della forza lavoro.
Schemi di transizione
La teoria trova dunque riscontro in tale quadro empirico e pertanto le transizioni divengono parte integrante di essa. Lo sviluppo delle forze produttive è definito come aumento della produttività del lavoro sociale, aumento a sua volta legato al grado di divisione del lavoro. Come abbiamo già accennato questo sviluppo è di due tipi: (D6) sviluppo qualitativo, derivante dalla creazione di forze produttive tecnicamente più avanzate di quelle esistenti; oppure: (D7) sviluppo quantitativo, mediante accrescimento delle forze esistenti, cioè accrescimento di scala (concentrazione) e del numero delle unità produttive. In rapporto alla dinamica delle forze produttive è necessario definire il concetto di trasformazione rivoluzionaria: (D8) rivoluzione politica: è il risultato di un mutamento quantitativo delle forze produttive; (D9) rivoluzione sociale: quando implica uno scontro tra due classi portatrici di due forze produttive di differente sviluppo qualitativo. Per cui la dinamica sociale si svolge in due modi differenti. Per il principio di oggettività (P1) il mutamento del rapporto di produzione richiede l’introduzione di nuove forze produttive e ciò, per il principio di soggettività (P2) avviene ad opera di una certa classe sociale, sviluppo che invece è ostacolato dalla persistenza del vecchio rapporto. Il salto rivoluzionario deriva dallo scontro tra gli interessi delle due classi portatrici delle due forze di produzione. Se lo scontro tra di esse ha luogo per una differenza quantitativa si ha solo una rivoluzione politica perché le due classi fondano il loro potere sociale sulla stessa base economica, per quanto questa possa essere stata ampliata, poiché tale ampliamento comporta solo una maggiore diffusione del medesimo rapporto di produzione. Cioè si ha semplicemente uno sviluppo quantitativo delle forze produttive esistenti, promosso da una classe nuova che però mantiene gli stessi rapporti di produzione e prende il posto della classe dominante precedente senza mutarne l’assetto sociale, ciò che peraltro sovente accade anche senza mutamento delle forze produttive, per semplice acquisizione di quelle esistenti, cioè mediante semplice espropriazione. Si tratta di un avvicendamento tra gruppi di potere, non fra classi, quindi di un mutamento unicamente politico. In entrambi i casi la classe rivoluzionaria non può essere quella più sfruttata in quanto, come vedremo più avanti, il principio di alienazione, impedisce che la classe più oppressa divenga portatrice di nuove forze produttive, ma può solo espandere quelle vecchie. Quando invece la trasformazione sociale è determinata dalla comparsa di forze produttive qualitativamente nuove e della classe corrispondente, che diviene classe dominante instaurando nuovi rapporti di produzione ed un nuovo assetto sociale, allora si tratta di una rivoluzione sociale.
Quindi si hanno le seguenti derivazioni, le prime due già viste: (C2) uno sviluppo qualitativo delle forze produttive è socialmente rivoluzionario ma classista; (C3) uno sviluppo quantitativo delle forze produttive non è rivoluzionario e quando lo è fallisce; (C5) la classe rivoluzionaria non è quella più sfruttata.
Tali correlazioni possono essere verificate empiricamente. Infatti, riassumendo, gli schemi di transizione che il materialismo storico contempla sono tre, due ben verificati empiricamente ma anche ben descritti dalla teoria, sebbene caratterizzati da dinamiche differenti. Il terzo di carattere essenzialmente teorico e ancora alla ricerca della sua conferma pratica. I primi due, la transizione dalla società gentilizia a quella aristocratica e poi da questa al capitalismo, riguardano periodi storici già conclusi e delimitano fasi storiche completamente superate, mentre il terzo, quello che segna il passaggio al comunismo, pur essendosi già manifestato in eventi significativi è ancora in via di svolgimento. Perciò è qui che il materialismo storico viene messo alla prova. Da una parte abbiamo fatti storici concreti, dall’altra previsioni frutto di considerazioni teoriche che attendono ancora in gran parte il loro riscontro empirico.
Rivoluzioni agrarie, o aristocratiche. L’unica vera rivoluzione agricola è quella che ha portato alla trasformazione della società gentilizia fondata sulla appropriazione diretta dei prodotti naturali, cioè sulla raccolta e la caccia, in società di classe, le società agrarie. Cioè i popoli agricoltori e sedentari acquistano una supremazia su quelli raccoglitori e allevatori nomadi, supremazia culturale ma non militare, ciò che determina sempre l’assimilazione dei nomadi da parte dei popoli agricoltori, i quali tuttavia vengono sottomessi militarmente dai primi. Ne risulta una società aristocratica dove gli assimilati sono la classe dominante, il popolo sottomesso la classe subordinata. Questa è l’unica rivoluzione agraria, quella che fonda la società di classe. Nelle società agrarie successive, caratterizzate dalla proprietà fondiaria, le rivoluzioni sociali che vi avranno luogo sono una ripetizione dell’atto fondativo, o il risultato di un accrescimento solo quantitativo delle forze produttive. Ma questo, dato lo sviluppo (qualitativo) estremamente lento della produttività del lavoro agricolo, e la predominanza della produttività naturale, avrà minore importanza dell’appropriazione delle forze produttive esistenti da parte di un popolo conquistatore. Si ha cioè la sostituzione di una classe aristocratica con un’altra di provenienza quasi sempre esogena, in generale attraverso la conquista di un territorio, mutamento proprio di un’epoca in cui l’appartenenza etnica o religiosa sostituiva mascherandola quella di classe. In conseguenza della staticità delle forze produttive tali sono anche i rapporti di produzione. Di qui il carattere tendenzialmente conservatore delle classi subordinate, il fallimento dei loro tentativi rivoluzionari e quindi in generale il carattere politico delle rivoluzioni. In sintesi: le rivoluzioni sia quelle politiche che quelle sociali sono opera di una ‘terza classe’, diversa da quella sfruttata. E’ il caso di tutte le società agrarie, da quelle barbariche fino alla società feudale. Nel caso delle città stato il processo di sostituzione interessa le oligarchie cittadine.
Rivoluzioni industriali, o borghesi. Si ha uno sviluppo di forze produttive qualitativamente nuove, che è promosso da una delle classi produttive, ma non da quella direttamente antagonista alla classe dominante. Tale espansione prosegue fino a quando non trova negli esistenti rapporti di produzione un ostacolo nello sviluppo del settore produttivo dove tale classe opera, trovandosi così nella necessità di abolire tale rapporto. Mentre le altre classi, in primo luogo quella dei proprietari dei mezzi di produzione del modo di produzione dominante, e per questo classe dominante, si oppone a tale sviluppo e soprattutto perché ciò implica l’abolizione dei rapporti di produzione vigenti. Lo sviluppo delle nuove forze produttive ha luogo all’interno della vecchia società, per cui la trasformazione procede sia mediante l’introduzione dei nuovi rapporti nel settore economico prima dominante, cui segue il suo assorbimento in quello nuovo, sia con la conseguente istituzione di nuovi rapporti politici e giuridici che rispecchino la posizione economica della nuova classe, cioè la transizione si realizza come abolizione dei privilegi della vecchia classe dominante. Quindi la nuova società si trova economicamente già sviluppata in quella vecchia, e il movimento storico deve soltanto liberarla dalle precedenti forme sociali ormai obsolete, quando non dannose, cioè dalle vigenti forme giuridiche, politiche e culturali. Tale immane scontro tra interessi di classe può terminare con una rivoluzione vittoriosa, e allora si apre un’epoca di sviluppo sociale, o si può risolvere in un compromesso, e allora lo scontro decisivo viene solo procrastinato, oppure può sfociare nella decadenza della società esistente, che sopravvive nella stagnazione o ritorna a modi di produzione precedenti, la “barbarie”. Riassumendo, qui si ha che la ‘terza classe’ agisce con strumenti essenzialmente economici, facendosi portatrice di nuove forze produttive, operando un mutamento rivoluzionario divenendo essa stessa classe dominante. E’ il caso delle rivoluzioni borghesi.
Rivoluzione del lavoro sociale, o comunista. Secondo la teoria non comporta alcun mutamento delle forze produttive, ma una semplice espropriazione, che tuttavia determina un mutamento radicale del rapporto di produzione ad opera della classe antagonista. Quindi non occorre che questa sia portatrice di un nuovo modo di produzione. Si colloca come fase conclusiva della società di classe, pertanto in connessione strettissima con la rivoluzione borghese, della quale si pone come necessaria continuazione e compimento.
In sintesi, considerando le forze produttive dal punto di vista qualitativo, cioè come modi di produzione, si osservano nella storia due grandi transizioni ben definite fattualmente, oltre ad una possibile terza transizione definita teoricamente ma solo parzialmente confermata empiricamente. La prima transizione è quella connessa all’invenzione dell’agricoltura, che determina la nascita della società di classe, che prende il posto della precedente società fondata su caccia e raccolta; e il passaggio dall’agricoltura all’industria come modo di produzione dominante, che determina l’avvento del capitalismo, nuovo modo di produzione che tuttavia rimane interno alla società di classe. Riguardo le classi, nelle rivoluzioni agrarie la nuova classe proprietaria è quasi sempre di origine esogena, è un popolo conquistatore (Cfr. Il mondo antico, in questo stesso sito), mentre nella transizione al capitalismo è la grande borghesia, che acquista una fisionomia propria separandosi dalla piccola borghesia. Quindi le rivoluzioni agrarie sono determinate da uno sviluppo tutt’al più quantitativo (quello qualitativo è talmente lento e superficiale da avere scarsi riflessi sociali), mentre nel passaggio dalla società aristocratica al capitalismo abbiamo uno sviluppo marcatamente qualitativo, che è il modo di transizione delle rivoluzioni borghesi. Peraltro la rivoluzione industriale è preceduta da un grande sviluppo della produttività dell’agricoltura e da una rivoluzione agraria qualitativa, che si confonde con essa e che è l’unica vera rivoluzione agraria, necessaria per proletarizzare i contadini e per l’accumulazione primitiva. Quindi la quantità sviluppandosi diviene qualità. Questi (scarsi) dati di fatto confermano le precedenti derivazioni, che nella teoria si aggiungono ai precedenti principi e che si possono così riassumere: (C2) le transizioni qualitative sono rivoluzionarie ma classiste; (C3) le transizioni quantitative non sono rivoluzionarie, e quando lo sono falliscono; (C5) la classe rivoluzionaria non è quella del modo di produzione principale, cioè quella che si oppone alla classe dominante come sua antagonista diretta in un rapporto di sfruttamento, ma una terza classe estranea al rapporto di produzione principale.
Queste derivazioni della teoria sollevano numerosi problemi, soprattutto sulle modalità della transizione, il ruolo delle classi e il loro rapporto con la dinamica delle forze produttive, in particolare riguardo alla terza transizione, cioè alla fine della società di classe e il passaggio al comunismo. Questa non ha precedenti storici se non parziali ed isolati, quindi le sue caratteristiche e le condizioni di realizzabilità devono essere dedotte dalla teoria. Ma si constata immediatamente che il comunismo è una ipotesi che non può essere dedotta dal materialismo. Il passaggio al comunismo sembra infatti incompatibile con il materialismo storico sotto due aspetti: (1) le condizioni della transizione, soprattutto la questione della ‘terza classe’; (2) la questione del carattere di latrice di nuove forze produttive che fa di una classe la classe rivoluzionaria (principio della classe progressiva C1) .
2. INCOMPATIBILITA’ DEL MATERIALISMO STORICO CON LA TRANSIZIONE AL COMUNISMO
(a) rispetto alle condizioni della transizione
La prima questione è immediata. Poiché nessuna delle due possibili transizioni porta ad un superamento della società di classe il comunismo appare impossibile. Infatti, come si è potuto constatare storicamente, se la transizione è quantitativa essa rimane nell’ambito della società classista esistente; se qualitativa approda ad un modo di produzione diverso ma sempre classista, quindi in ogni caso rimangono interne alla forma classista della società. Inoltre, la classe rivoluzionaria non è quella che ha una posizione subordinata del rapporto di produzione principale, ma è esterna ad esso.
Non sorprende che la rivoluzione comunista sollevi difficoltà teoriche, poiché in quanto segna la fine delle società di classe si presenta come caso speciale, senza precedenti cui riferirsi. Infatti la disamina finora svolta sul materialismo conduce alla conclusione che solamente lo sviluppo qualitativo delle forze produttive porta ad un mutamento radicale del rapporto di produzione. Infatti considerando il quadro complessivo delineato dal materialismo esso allude a una alternanza di fasi di sviluppo quantitativo e qualitativo che possono susseguirsi all’infinito, ma non prevede la loro fine. Quindi il materialismo è compatibile con le dinamiche delle società di classe solo fintanto che ne considera la nascita, la riproduzione, lo sviluppo ma non quando tratta il superamento del classismo. Per superare tale difficoltà è necessario modificare più o meno profondamente la teoria stessa.
(b ) Incompatibilità tra materialismo storico e le teorie sulla lotta di classe nel capitalismo.
Ma qui sorge la seconda difficoltà. Cioè le condizioni per un superamento del capitalismo non trovano riscontro nei fatti anche riguardo la necessità per il proletariato di presentarsi quale portatore di forze produttive. Infatti il materialismo storico prevede che lo sviluppo delle forze produttive sia opera della classe egemone (C1), che essa sia tale proprio per questo. Tale principio generale va mantenuto, poiché il materialismo storico è essenzialmente una teoria della lotta di classe in quanto conflitto che ha le sue radici nell’economia. Ma il proletariato non può svolgere tale ruolo. Infatti, condizione necessaria perché una classe abbia una funzione progressiva rispetto allo sviluppo delle forze produttive del lavoro è che essa stia in un rapporto quanto meno dialettico con il lavoro stesso. Cioè una classe progressiva è tale a due condizioni: se è classe di produttori e se ha con il lavoro sociale un rapporto complessivamente positivo, per quanto le condizioni sociali in cui questo si svolge possano essere insoddisfacenti. In particolare il proletariato, proprio in quanto classe rivoluzionaria, dovrà avere un rapporto positivo con il lavoro sociale così come si presenta sotto il capitalismo, quindi con il lavoro come cooperazione e come macchinismo. Ma i dati storici riguardo svolgimento della lotta di classe nella società del capitale sembrano confutare la teoria.
Infatti, la dinamica sociale relativa al lavoro sotto il capitale viene descritta da Marx tramite la categoria dell’alienazione e la teoria connessa, con particolare riferimento all’alienazione sociale. Questa appare già nei “Manoscritti del ‘44” (Cfr. ivi, Il lavoro salariato), e viene ulteriormente svolta negli scritti successivi e principalmente nel Capitale (Cfr. soprattutto ivi I, IV, 11-13), ripresa poi come teoria operaista italiana (Panzieri). Qui l’alienazione riguarda il rapporto tra lavoratore salariato e i mezzi di produzione sotto il capitale, denominato ideologicamente (C2) rapporto uomo-macchina, mentre si tratta in realtà del rapporto di produzione tra lavoro salariato e capitale. Tale teoria si può così riassumere. Le forze produttive non solo determinano specifici rapporti di produzione ma evolvendosi nel tempo creano una classe di produttori conflittuali rispetto a questi rapporti, che appaiono statici in rapporto a tale sviluppo, generando una crisi. Ciò equivale a dire che il superamento dell’alienazione naturale comporta il contestuale aumento dell’alienazione sociale. La crisi induce il capitale a riorganizzare la produzione introducendo nuove tecnologie in modo da disciplinare i produttori, riequilibrando così i rapporti di potere all’interno del rapporto di produzione esistente ripristinando il comando sul lavoro, cioè il rapporto di produzione. Viene così operata una ristrutturazione, cioè uno sviluppo qualitativo delle forze produttive. Se l’operazione riesce il rapporto di produzione viene mantenuto nel suo carattere essenziale, altrimenti crolla. Ma anche quando riesce il mutamento qualitativo delle forze produttive ripropone con maggior forza la necessità di un mutamento del rapporto di produzione determinando una esasperazione del conflitto fino al crollo finale. La prima fase del ciclo è descritta dal materialismo storico classico, la seconda è la critica del macchinismo presente nel Capitale (Ivi, I, IV, 13) e sviluppata da Panzieri.
Quindi, secondo la teoria dell’alienazione sociale capitalista, l’esistenza di una classe di produttori in conflitto con i rapporti di produzione promuove oggettivamente lo sviluppo di nuove forze produttive. Ma questo sviluppo è rivolto contro i produttori in quanto tende ad intensificare lo sfruttamento poiché rafforza il comando sul lavoro, aumenta la disoccupazione, dilata il tempo di lavoro e ne accresce l’intensità, cioè complessivamente tende ad aumentare il plusvalore relativo. Infatti tale sviluppo delle forze produttive è realizzato dalla borghesia, cioè dalla classe proprietaria, superando la resistenza opposta dai produttori allo sfruttamento. E solo dopo di ciò è possibile ripristinare il rapporto di produzione, in parte mutato ma, in assenza di una transizione, invariato per l’essenziale. Quindi il proletariato si oppone soggettivamente allo sviluppo delle forze produttive esistenti, per cui non può essere una classe progressiva nell’ambito delle forze produttive esistenti. Di conseguenza non può avere un ruolo rivoluzionario in una transizione qualitativa di questo tipo in quanto si tratta di forze appartenenti al capitale e combattute dal proletariato. Ciò è precisamente la definizione dell’alienazione sociale: il dominio che i prodotti sociali esercitano su coloro che li hanno creati.
Considerando il caso di una transizione nella quale il proletariato sia esso stesso creatore di nuove forze produttive, tale eventualità pare ancor più remota. Se il proletariato non è progressivo rispetto alle forze produttive esistenti, a maggior ragione non potrà crearne delle proprie. Infatti si può constatare che non possiede palesemente forze produttive proprie, superiori a quelle del capitale stesso, da opporre ad esso. Anzi sempre più il proletariato appare spossessato delle proprie capacità di lavoro, sempre più si presenta come forza lavoro astratta priva non solo di risorse proprie ma di autonoma esistenza in quanto forza lavoro. Ciò risulta evidente nei momenti di scontro sociale dove il proletariato appare privo di un progetto di mutamento sociale che oltrepassi il capitale (Cfr. W.Woland, Teoria radicale ecc., Nautilus, 1982, IV).
La teoria del materialismo, appare quindi palesemente incompatibile con il quadro della lotta di classe sotto il capitale - nella sua forma corrente, quella dell’operaismo, - disegnato dalla teoria dell’alienazione. Tale difficoltà del materialismo storico è stata rilevata raramente, ad esempio da K. Korsch (Cfr. Il materialismo storico, Laterza, 1971, p. 28, n.) e da Pannekoek (Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, Feltrinelli, 1970, pp. 71-72), e comunque non adeguatamente sviluppata.
Quindi due sono le questioni da risolvere: incompatibilità della rivoluzione comunista con il materialismo per quanto riguarda le condizioni necessarie per la transizione; incompatibilità per il carattere non rivoluzionario del proletariato. Sono questi nodi che occorre sciogliere, compito tanto più urgente di fronte all’involuzione reazionaria dell’operaismo e di tanta parte della sinistra, che ha portato a forme di ambientalismo totalitarie e dogmatiche, quando non misticheggianti nell’auspicare un ritorno alla terra, sostanzialmente a modi di produzione superati storicamente e comunque impossibili da ripristinare. Nodi che pure possono dar conto anche della deriva riformista del marxismo, conseguenza del fatto che il diritto storico ad affossare un sistema sociale è conferito dall’essere possessori della base materiale oggettiva adeguata all’esistenza di una società superiore, e ciò è possibile solo a una classe progressiva rispetto allo sviluppo delle forze produttive esistenti, e se queste sono prodotto del capitale con esso occorre conciliarsi. Verità sgradevoli queste, che entrambe tali correnti revisioniste si rinfacciano reciprocamente, cioè sostanzialmente gli ambientalisti ai riformisti di promuovere lo sviluppo, i secondi di rimando ai primi di auspicare il contrario, cioè la decrescita.
Occorre quindi rispondere a queste obiezioni, che sono la critica che il materialismo rivolge a se stesso, e la risposta può essere trovata solo nella storia reale, in quella dei modi di produzione, innanzitutto in quella attuale. Infatti l’evoluzione del capitalismo posteriormente a Marx ha fatto emergere alcuni fatti nuovi, che mutano in parte la prospettiva, fatti che possono suggerire delle soluzioni. Una risposta decisiva, o almeno la possibilità di essa, può emergere da un chiarimento del rapporto fra materialismo storico e teoria dell’alienazione.
3. L’ALIENAZIONE I
Lo schema marxiano
La teoria della rivoluzione comunista, come deduzione dal materialismo storico è ancora sostanzialmente quella proposta da Marx. Egli descrive la transizione al comunismo come evento particolare, attribuendogli il carattere specifico di transizione che conclude l’era della società di classe. Così può delineare la rivoluzione comunista conferendogli caratteri speciali, essendo la rivoluzione comunista un evento di per sé unico, diverso da tutti i movimenti rivoluzionari precedenti. Infatti nel quadro marxiano della società capitalistica matura devono essere presenti solo due grandi classi che hanno assorbito tutte le altre. Una, la borghesia, numericamente esigua ma proprietaria assoluta della società; l’altra, il proletariato, costituita dalla quasi totalità degli individui, spossessata di tutto, come è necessario perché sia possibile la fine di ogni rapporto di proprietà e l’avvento della società senza classi. Esse sono solo due in quanto il capitalismo è la società di classe all’apice del suo sviluppo. Dopo può solo verificarsi la sua decadenza. Quindi dopo il capitalismo non possono esserci altre società di classe.
Se si pone come postulato che il capitalismo è l’ultima società di classe allora non è necessario che le forze produttive debbano svilupparsi ulteriormente sul piano qualitativo, perché si realizzi la fine della società di classe. Se non è necessario che vi sia un modo di produzione al di là dell’industrialismo, la teoria del superamento di Marx deve porsi nell’ambito di un mutamento quantitativo delle forze produttive, quindi come eccezione, in quanto qui la classe subordinata, il proletariato, diversamente dai contadini delle società agrarie, è socialmente rivoluzionaria, anzi più rivoluzionaria di ogni altra perché pone fine al ciclo delle società di classe, secondo il classico schema tripartito dei grandi cicli storici: società primitiva (naturale), società di classe (pseudo-naturale), con cui si conclude la preistoria dell’umanità (storia incosciente), ed infine il comunismo (inizio della storia cosciente).
Quindi Marx descrive la transizione al comunismo come evento speciale. Ma essendo già la rivoluzione borghese un caso senza precedenti storici, si può affermare alternativamente che Marx considera per certi aspetti la rivoluzione proletaria come la continuazione della rivoluzione borghese lasciata incompiuta dalla borghesia, compimento che nelle mani del proletariato diviene qualcos’altro, cioè un processo che porta alla società senza classi. Pertanto Marx considerando la rivoluzione proletaria e l’avvento del comunismo essenzialmente come compimento della rivoluzione borghese, può porre tali eventi come il suo proseguimento da parte del proletariato dopo aver eliminato la contraddizione più generale che ne ostacola lo sviluppo, cioè l’uso di un processo di produzione eminentemente sociale per un fine privato. In buona sostanza la borghesia crea due nuove forze produttive: la divisione industriale del lavoro, cioè il lavoro sociale e il suo complemento, il mercato, estesi su scala mondiale; ma può svilupparle solo in parte, per cui il proletariato ne assume l’eredità e libera tali forze produttive borghesi dai ceppi che le ostacolano sviluppandole quantitativamente e facendone la base della propria emancipazione ed insieme di quella di tutto il genere umano, ponendosi come classe universale.
Ma lo schema marxiano ha due aspetti discutibili, che sono la forma che assumono in Marx le insufficienze del materialismo storico considerate in precedenza. Poiché Marx suppone implicitamente che il superamento del capitalismo coincida con la fine della società di classe, i caratteri teorici della transizione al comunismo proposti da Marx sono tutti dedotti da tale presupposto. Infatti se il capitalismo è l’ultima società di classe allora: (1) la questione della mancanza di precedenti storici per la transizione al comunismo è superata; in particolare, poiché esistono solo due classi, e si può escludere l’intervento di una terza classe rivoluzionaria; (2) non è necessario che la classe rivoluzionaria sia latrice di nuove forze produttive, cioè sia progressiva; (3) ciò rende necessaria l’espropriazione delle forze produttive esistenti seguita dal loro sviluppo quantitativo. Ma se in tal modo Marx risolve entrambe le questioni postulando per il capitalismo il carattere ultima società di classe pone tale condizione come assioma astratto non sostenuto da fatti concreti, come atto di fede, come ipotesi ad hoc. Ciò non invalida il discorso ma lo rende più debole. Ma così rinuncia a conferire al proletariato il ruolo di portatore di nuove forze produttive, senza tener conto del fatto che è proprio questa caratteristica a rendere una classe rivoluzionaria. Infatti per accedere al comunismo il rapporto di produzione deve mutare e per questo devono mutare le forze produttive, secondo il principio di oggettività sociale (P1). Quindi è necessario che il proletariato sia portatore di nuove forze produttive in modo da trasformare il rapporto di produzione in una prospettiva comunista. E ciò implica la permanenza della società classista, in quanto se si postula che il capitalismo è l’ultima società di classe le nuove forze produttive possono ugualmente portare al superamento della società di classe e al comunismo. Cioè la natura rivoluzionaria delle lotte proletarie è garantita dalla natura particolare del capitalismo, dal fatto che è l’ultima società di classe. Marx invece contraddittoriamente pone il proletariato come classe rivoluzionaria ma non progressiva, prendendo così a modello le rivoluzioni agrarie invece delle rivoluzioni borghesi.
Alienazione e capitalismo
Quindi in realtà tale discorso si presta a molte obiezioni. La principale è che la fine della società classista non può essere un postulato astratto e indipendente dagli altri, ma deve essere fondato su un presupposto materiale, essendo il materialismo storico un discorso che deduce fatti sociali da premesse materiali, cioè da fatti economici, dobbiamo esplicitare che cosa mina alla sua base la società di classe e quindi il capitalismo e che la porta ad estinguersi. Ciò che distingue il capitalismo dalle precedenti società agrarie non è tanto lo sfruttamento del lavoro, sempre esistito nella società di classe ma le forze produttive messe in azione e soprattutto il risultato: un enorme aumento della produttività del lavoro, ciò che ha determinato in breve tempo una virtuale abolizione della dipendenza della società dal mondo naturale, cioè l’abolizione dell’alienazione naturale. Ma l’alienazione è la causa profonda della divisione in classi: questo è l’anello di congiunzione fra materialismo storico e teoria dell’alienazione, per il quale si può affermare che la borghesia, abolendo l’alienazione naturale, pone le premesse per l’abolizione delle classi.
Tuttavia, se l’alienazione scomparisse con il superamento della condizione di dipendenza dal mondo naturale, dopo la rivoluzione borghese e il conseguente sviluppo qualitativo delle forze produttive, la società di classe e con essa lo stato si estinguerebbero, cioè la rivoluzione borghese porterebbe direttamente al comunismo. Ma così non è a causa dell’inerzia sociale (P3), per cui i rapporti sociali borghesi, e con essi i rapporti di classe in generale, sopravvivono alla scomparsa della loro base materiale, cioè dell’alienazione naturale. La società assume allora una forma pseudonaturale, i rapporti di produzione e quelli sociali in generale divengono sempre più rapporti competitivi fra gruppi particolaristici, cioè scontri fra bande rivali (lobby, mafie, clientele, cordate, sindacati di controllo ecc.), forma tipica dello stato di natura, di bellum omnium contra omnes. Sopravvive quindi una struttura classista artificiale, che si mantiene oltre la sua necessità, assumendo contorni esasperati. Dal punto di vista ideologico si produce un genere particolare di falsa coscienza, il feticismo delle categorie dell’economia, che vengono assolutizzate quindi trasformate ideologicamente in fattori condizionanti la vita economia e sociale.
Diviene così necessaria un’ultima rivoluzione che è in sostanza una continuazione e completamento di quella borghese. In linea di principio tale rivoluzione non sarebbe strettamente necessaria per pervenire alla fine della società di classe, in quanto questo evento è già completamente determinato dalla fine dell’alienazione naturale e la sua realizzazione è solo questione di tempo. Ma, come sempre, il materialismo non è in grado di stabilire scadenze temporali per la storia e la transizione potrebbe protrarsi per un tempo infinito. Inoltre nulla garantisce che in questo limbo storico, non possa apparire una “terza classe” abbastanza forte da compiere una rivoluzione classista (ad esempio una rivoluzione dei tecnici), rinviando la fine della società di classe. Quindi il discorso teorico va interpretato come un incitamento ad affrettare i tempi di un evento già scritto nella storia, nella ragionevole fiducia di essere dalla parte della necessità storica.
Pertanto è essenziale che la teoria includa il principio seguente, vero fondamento del materialismo storico:
principio di alienazione: (P4) l’origine delle classi sociali è l’alienazione.
Da cui consegue che il capitalismo pone fine alla società di classe in quanto abolendo l’alienazione naturale ha eliminato la causa primaria della separazione in classi della società. Ma questo processo è accompagnato dallo sviluppo di un’altra forma di alienazione, quella che sorge dalla divisione del lavoro, che è precisamente lo strumento che ha permesso alla società di uscire dall’alienazione naturale. Quindi la causa del superamento dell’alienazione è anche ciò che la riproduce in un’altra forma e prolunga l’esistenza della società di classe oltre la sua necessaria esistenza storica. Questo spiega la complessità del processo di uscita dal capitalismo e conferma la legge di inerzia sociale.
Quindi, poiché si tratta di fondare l’assunzione marxiana della coincidenza della fine della società di classe con quella del capitalismo fornendogli una base materiale, a ciò può provvedere la teoria dell’alienazione. D’altra parte non c’è da stupirsi che i dati storici, cioè quelli relativi alle rivoluzioni agrarie e borghesi non forniscano indicazioni sulle rivoluzioni proletarie. Infatti le prime si svolgono interamente nell’ambito della società di classe, mentre le seconde la riproducono a livello più alto. D’altra parte, quando un teorema è indimostrabile in base ai postulati l’unico modo per salvare la teoria è considerare il teorema come un nuovo postulato. Ciò significa considerare la teoria dell’alienazione parte integrante del materialismo storico.
Con l’inclusione della teoria dell’alienazione nel materialismo storico è possibile risolvere il problema sin qui trattato, cioè che i precedenti storici sembrano impedire la fine della società di classe, cioè l’affermazione del comunismo. Questo soprattutto per quanto riguarda la questione della ‘terza classe’ e il carattere progressivo del proletariato. Ma per la seconda questione rimane una perplessità.
Ammesso il postulato sugli effetti sociali dell’alienazione naturale, allora, essendo necessariamente due le classi ed essendo già oggettivamente decaduta la società di classe, sarà compito del proletariato, in quanto classe oppressa, porre termine insieme al capitalismo alla società di classe agonizzante, tale ormai solo sovrastrutturalmente. Ma per assumere tale ruolo secondo il materialismo storico deve farsi portatore di una nuova forza produttiva, poiché questa è la condizione che rende una classe rivoluzionaria. Infatti, poiché l’obbiettivo ultimo di una classe rivoluzionaria è la trasformazione dei rapporti di produzione, per realizzare tale finalità deve creare nuove forze produttive. Quindi deve porsi come classe progressiva, volente o nolente. Del resto ciò è dimostrato dalle rivoluzioni borghesi, le uniche che abbiano determinato l’eliminazione di una classe dominante, e di converso dalle rivoluzioni agrarie, dove il semplice tentativo di espropriazione delle terre non ha mai portato alla fine dell’aristocrazia. Che poi la rivoluzione proletaria non possa sfociare in un’altra società di classe, nonostante segua il modello delle rivoluzioni borghesi, ciò è garantito dal fatto che non esiste più la sua base materiale, cioè l’alienazione naturale.
L’alienazione sociale che la sostituisce è infatti una condizione tipica della società borghese. Essa si manifesta come feticismo sociale, cioè come rapporti sociali dove la dipendenza funzionale tra gli individui in quanto produttori diviene rapporto di dominio mascherato da necessità oggettiva, cioè considerata ideologicamente come legge naturale, come portato delle proprietà naturali delle cose. Nella sua forma più astratta l’alienazione sociale si presenta come feticismo delle categorie dell’economia politica, espresso in forma di sistema dottrinario dagli economisti borghesi, ma esistente in ogni individuo in quanto pensiero dominante della classe dominante. Non che l’alienazione fosse assente nelle società agrarie, ma era soverchiata dall’alienazione naturale ancora pervasiva e si confondeva con essa. La sua forma tipica era la religione, ma anche il valore militare, la famiglia, l’onore e in generale tutti i valori delle società tradizionali.
Qui diviene necessario sviluppare il discorso sull’alienazione e in particolare sul feticismo. Innanzitutto rileviamo che la sua compatibilità con il materialismo storico è problematica, ciò che rende difficoltosa l’unificazione delle due teorie. Per sua natura la teoria dell’alienazione tende ad avere una forma idealistica, sebbene tale forma descriva molto puntualmente contenuti materialisti. Infatti si presta molto bene ad un uso quasi obbligato della dialettica, ciò che possiamo concederci per ora anche noi in questo saggio, nonostante l’impostazione generale per quanto riguarda il materialismo sia quella del metodo scientifico. Si tratta di una contaminazione che va giustificata, ciò che faremo in altra occasione. Rileviamo soltanto che il materialismo storico, comprendendo solo marginalmente il concetto di misura (solo in quanto è in rapporto con l’economia politica), è una teoria fortemente qualitativa e lo è ancor di più con l’inclusione in essa del concetto di alienazione, interamente qualitativo, quindi non si presta all’applicazione del metodo scientifico. Ciò rende necessario l’uso di un linguaggio allusivo e sintetico, quale è quello della dialettica.
4. L’ALIENAZIONE II
Alienazione naturale e sociale
L’alienazione è una condizione di dipendenza dall’ambiente. Quindi può essere naturale o sociale. L’alienazione naturale si manifesta come tale solo in opposizione a quella sociale. Infatti una economia naturale è una contraddizione in termini in quanto l’esistenza di una economia presuppone una società strutturata che solo come tale si può contrapporre alla natura. Una società implica un insediamento stabile e un rapporto con la natura definito e quindi anche rapporti sociali definiti. Una banda di cacciatori non possiede una struttura stabile, quindi nemmeno una economia. Questa esiste se nella società esiste una struttura particolare, unica o molteplice: l’unità produttiva, cioè un gruppo di produttori fondato sulla cooperazione finalizzata alla riproduzione del gruppo stesso. Se non vi è economia non vi è società ma solo un’orda che non differisce da un branco animalesco. Vi sono forme di transizione, come i cacciatori magdaleniani o gli indiani delle Grandi Pianure, che vivevano di caccia e raccolta in agglomerati stabili, ma sono eccezioni possibili solo in condizioni particolarmente favorevoli: abbondanza di fauna con transiti regolari, ciò che permetteva forme di caccia collettiva. Ma in generale la dipendenza dalla natura è totale.
In realtà non si può parlare di economia e di comunità stabile prima dell’avvento dell’agricoltura e lo sviluppo del villaggio neolitico come unità produttiva fondato su tale base. Qui la dipendenza della società dalla natura inizia ad essere mediata dall’economia quindi comincia ad attenuarsi. Ma al contempo inizia a manifestarsi una nuova dipendenza, quella della società dalla struttura che essa a creato per sottrarsi all’alienazione naturale, cioè dall’economia. Nasce l’alienazione sociale A questo stadio rudimentale l’alienazione comprende fattori non direttamente economici, come la guerra o le catastrofi naturali, che nondimeno producono attività specialistiche e i ruoli connessi: guerrieri, sciamani, fabbri, vasai, costruttori. Ma ciò che è importante è che il fatto stesso che gli individui (in realtà i gruppi famigliari) si riunissero in gruppi sociali al fine di combattere l’alienazione naturale comincia a produrre le prime differenziazioni sociali.
Già nei gruppi di cacciatori nomadi si può riconoscere una unità produttiva naturale, la famiglia, al cui interno si manifesta divisione del lavoro fondata sul sesso e l’età. Questa organizzazione sociale naturale costituisce il nucleo originario che sviluppandosi dà origine ad aggregati di dimensioni e complessità crescenti. Tutti questi elementi costituiscono le prime manifestazioni di un processo che si protrae fino ai giorni nostri, cioè la storia della società di classe. Quelle che sono specializzazioni sorte per migliorare le capacità degli individui per svolgere determinati compiti e il tempo impiegato maggiore della media che deve essere ricompensato, diventano l’origine di rapporti di potere all’interno della compagine sociale. Soprattutto emergono come caste privilegiate quella dei guerrieri, quella sacerdotale, ma non mancano casi di re-fabbri o società matriarcali, quando la procreazione stessa diviene una specializzazione. Comunque nascano i primi gruppi sociali in generale si manifesta invariabilmente il fenomeno per cui il vantaggio nell’affrontare collettivamente la lotta contro l’alienazione naturale emerge con forza irresistibile, nonostante il contemporaneo affermarsi delle gerarchie sociali. L’unione fa la forza: un luogo comune, ma non per questo meno vero. Infatti la nascita, la crescita, la diffusione di raggruppamenti sociali diviene un fenomeno irreversibile. Però si presenta una contraddizione. Cioè le strutture create dalla società per combattere le minacce provenienti dall’esterno, che nel loro insieme costituiscono l’alienazione naturale, più divengono efficaci e quindi indispensabili, più si trasformano in formazioni dannose per la società stessa che le ha create. Si una eterogenesi dei fini. I gruppi sociali che gestiscono le strutture più potenti tendono a reclamare privilegi, o a accaparrarli di fatto, giustificandoli con i loro meriti o semplicemente utilizzando le loro particolari funzioni come armi contro il resto della società per strapparle concessioni.
Ciò accade ancor più frequentemente quando un gruppo esterno riesce a sopraffare un altro gruppo. Allora il gruppo esterno si installa nella società aggredita come gruppo dominatore puro e semplice sulla base del monopolio della forza militare, senza nemmeno giustificare la sua collocazione sociale con la funzione. Ma poi con il tempo la forza della casta militare diviene forza sociale e i loro titolari assumono le funzioni economiche e sociali di ogni classe dominante, che divengono quelle che fondano realmente il suo dominio. Quindi il caso più frequente di un evento di questo tipo è la conquista militare, che dà origine ad una aristocrazia, che quasi sempre prima si accorda, poi si fonde con quella sconfitta, condividendone le funzioni sociali. Oppure, più raramente, si può trattare di una invasione economica, dove una potenza mercantile-militare mette fuori mercato i mercanti locali o impone per sé privilegi monopolistici. O anche può accadere che una religione nuova sostituisca quella esistente, con o senza la forza delle armi, quasi sempre con conseguenze politiche.
Il potere economico
In conclusione l’alienazione naturale, cioè la necessità naturale, dà luogo a tre fenomeni:
(1) la creazione di classi sociali, cioè di gruppi sociali portatori di tecniche produttive finalizzate alla risoluzione di determinati aspetti della necessità naturale, cioè della sopravvivenza della società nel suo insieme.
(2) le classi tendono ad usare il loro particolare monopolio di tecniche sopravvivenziali per acquisire una posizione privilegiata nella società.
(3) se tale acquisizione può avere inizialmente finalità onorifiche, o essere fondata sulla forza militare, mercantile o religiosa, con il tempo questa posizione preminente assume carattere esclusivamente politico-economico, cioè si impadronisce della produzione.
Infatti questi monopoli, o poteri, sono in origine principalmente tre: militare, religioso, mercantile. Il quarto potere, quello produttivo, non viene considerato tale in quanto ognuno, in una situazione di abbondanza di risorse naturali res nullius o tutt’al più di proprietà collettiva (prima della specializzazione l’appropriazione di un territorio è un compito collettivo e dà diritto ai singoli, cioè alle singole famiglie, a utilizzarlo secondo il bisogno) , può svolgere tale attività in ambito famigliare da sé e quindi per sé, almeno fino a quando l’economia è fondata sulla raccolta e la caccia, cioè sulla produzione naturale.
Con l’invenzione dell’agricoltura si ha anche la scoperta del lavoro produttivo, cioè del lavoro che genera un prodotto netto, vale a dire che il lavoro può produrre più del necessario per la riproduzione o sopravvivenza del produttore. Ora l’ascesa di una classe poteva avere una finalità non più solamente formale, ma economica, quindi poteva tendere a trasformarsi in potere economico impadronendosi della produzione, cioè principalmente della terra, fino ad allora proprietà comune, trasformandola in proprietà privata. Si tratta di un processo millenario, che copre un intera epoca storica, quella della società di classe, ma infine il potere economico si identifica con quello di una classe determinata, quella capitalista. Con l’ascesa di questa classe il potere economico si autonomizza. Non solo non è più un potere subordinato agli altri, ma può invertire il rapporto con essi. Per cui ora è il potere economico il fondamento della forza militare, come anche del potere religioso e così anche la produzione domina lo scambio e la sua ancella, la finanza.
5. ATTUALITA’ DELL’OPERAISMO
Caratteri generali dell’operaismo
Si tratta ora di affrontare la seconda questione, quella del carattere non progressivo del proletariato che sembra impedirgli di essere all’altezza del suo ruolo storico, quello di esecutore della sentenza emessa dalla storia che condanna la società di classe all’estinzione. A tale scopo occorre ricorrere non tanto all’ortodossia marxista quanto alle correnti marginali del marxismo, le sole che hanno tentato di sviluppare la teoria in forme compatibili con l’evoluzione del capitalismo moderno. Quella che più si è spinta avanti su questa strada, pur mantenendosi fedele per l’essenziale al marxismo, è l’operaismo.
L’operaismo, considerando marxianamente il capitale come uno specifico rapporto sociale, lo attacca alla radice ponendosi come critica del capitale a partire dal rapporto di produzione concreto e immediato nel luogo di lavoro. Secondo tale prospettiva esso individua nel capitalismo due elementi fondamentali: la tecnica come scienza applicata e la divisione del lavoro in quanto organizzazione del lavoro. Ciò lo conduce ad una critica del macchinismo e della separazione tra lavoro direttivo ed esecutivo. Ma questi due aspetti del rapporto di produzione sono strettamente legati: la direzione è la funzione che considera il processo produttivo astrattamente sotto l’aspetto teorico complessivo, la macchina ne è la realizzazione pratica particolare. Dove per macchina si intende il processo produttivo concretamente in atto, per la quale è indifferente che sia animata, come l’operaio collettivo della manifattura, oppure inanimata, come il sistema di macchine dell’industria meccanizzata. Per cui la direzione è la tecnica in generale, intesa indifferentemente come scienza naturale o scienza sociale applicate, quindi organizzazione e direzione di forze sia naturali che sociali. Mentre la funzione esecutiva è sempre la realizzazione di quella direttiva, la sua oggettivazione
Sotto il capitale entrambi gli aspetti del rapporto di produzione hanno quale la finalità primaria del processo produttivo: la subordinazione della forza lavoro al capitale in quanto condizione imprescindibile del suo fine ultimo, il profitto. Per questo divisione del lavoro e macchinismo, le più grandi forze produttive (insieme al mercato mondiale) sviluppate dal capitale, hanno una duplice natura che rispecchia la duplice natura del processo di produzione sotto il capitale: processo di lavoro e processo di valorizzazione. Ciò che comporta una eterogenesi dei fini che sono inscindibilmente sia la produttività che il profitto, in cui però il primo è necessariamente mezzo per il secondo e quest’ultimo motore del primo. Ma qui si verifica un fatto caratteristico. Nella percezione del capitalista l’unico fine è il secondo, mentre il primo è una ineludibile necessità, cui il capitalista deve sottostare suo malgrado. Considerato al livello della società tale fine è l’interesse generale, ma si realizza “dietro le spalle” del capitale complessivo, affidato all’azione provvidenziale di una “mano invisibile”. Perciò la razionalità, cioè l’interesse generale come fine, presiede al primo obbiettivo ma è viziata dall’interesse privato che sostanzia il secondo. Questo si presenta come limite insuperabile del capitalismo, già indicato da Marx: contraddizione tra carattere sociale della produzione e carattere privato dell’appropriazione. Si pone allora il problema: è il superamento di questo limite compatibile con il materialismo storico? In altri termini, rappresentando questo limite un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, il proletariato è la classe che può risolvere tale situazione di stallo, ponendo l’economia su nuove basi?
Le risposte dell’operaismo
L’operaismo di norma non si occupa di questioni di teoria generale. Per esso ciò che importa è valorizzare il conflitto e vederne gli sbocchi pratici, sia quelli immediati, cioè i rapporti di produzione e di potere in fabbrica, che in prospettiva, cioè la possibilità di passare all’autogestione della produzione da parte dei produttori. Tuttavia tale corrente di pensiero può indicare una possibile soluzione del problema. Infatti esistono almeno tre versioni dell’operaismo, delle quali una sola in particolare appare compatibile con il materialismo.
La prima forma di operaismo è quella della corrente italiana (Panzieri), continuazione diretta della teoria dell’alienazione marxiana, già esposta più sopra (Cfr. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine, in Spontaneità e organizzazione, BFS, 1994). Però se la posizione di Marx riguardo la tecnica è ambivalente, cioè è vista come strumento sia di dominio del capitale che di liberazione del proletariato, nell’operaismo italiano la tecnica è considerata unicamente un apparato di dominio materiale. La condizione della transizione non è più lo sviluppo delle forze produttive e l’ostacolo che esse incontrano nel rapporto di produzione capitalistico, ma nella “intollerabilità” dei rapporti politici che ne risultano, la “schiavitù politica”, cioè nelle conseguenze sovrastrutturali (Ivi, pp.28, 36). La transizione è un atto essenzialmente politico, cui segue l’istituzione di una “nuova razionalità” non produttivistica, cioè un uso socialista delle macchine in luogo di quello capitalista (Ivi, pp.31, 32, 34, 36, 39, e Plusvalore e organizzazione pp.59, 65-68). Qui la critica al rapporto di produzione si concentra sulla tecnica, cioè sul macchinismo, che espropria l’operaio della sua capacità di lavoro trasferendola alle macchine e lo trasforma in semplice accessorio di esse. Ne deriva una fascinazione inconfessata verso un luddismo non criticato, di negazione unilaterale del capitale in quanto tale e del lavoro stesso, con il rischio di una deriva reazionaria, come in effetti si è poi verificato negli esiti postumi.
La seconda forma è l’operaismo francese (Cardan). Qui la critica verte sulla divisione del lavoro e vede il fulcro della lotta di classe nella contrapposizione tra lavoro esecutivo e lavoro direttivo e nell’intrinseca contraddizione del loro rapporto (Cfr. Capitalismo moderno e rivoluzione, 2, pp.160-161, in Socialisme ou Barbarie, Guanda, 1969). Il ruolo delle macchine come materializzazione del potere del capitale viene sottolineato (Ivi, pp.69-73), ma non è visto solo negativamente. Infatti, il lavoro esecutivo è posto come elemento contraddittorio in quanto, se l’esigenza del capitale è quella di avere una forza lavoro totalmente passiva, nello stesso tempo la complessità del sistema di macchine è tale che, se il lavoro realmente così fosse, il sistema collasserebbe. Ciò significa che il sistema delle macchine ha bisogno dell’insieme coordinato dei produttori per funzionare, apporto che i produttori erogano gratuitamente (a parte qualche raro premio di produzione collettivo) agendo non come puri esecutori, cioè come macchine, ma cooperando attivamente tra loro facendo sì che il flusso produttivo scorra in modo ottimale. Ma il fatto significativo è che tale prestazione collettiva viene erogata spontaneamente rivelando che la comunità di lavoro possiede sempre, malgrado l’espropriazione realizzata dal capitale, una capacità di lavoro collettiva non alienabile, in cui tale comunità si realizza. Ne consegue una visione positiva del lavoro, sebbene perennemente sospesa tra cogestione dello sfruttamento e sabotaggio. Quanto alla transizione al comunismo abbiamo qui nuovamente una visione prevalentemente soggettivista. La contraddizione viene spostata dall’opposizione tra forze produttive e rapporto di produzione, a quest’ultimo in quanto tale. Sebbene il suo aspetto contradditorio venga posto in relazione allo sviluppo delle forze produttive (Ivi, p.162), la contraddizione è interna al rapporto di produzione, quindi si tratta di una contraddizione immediatamente politica. Tale impostazione è resa necessaria in quanto viene dimostrato che il semplice rapporto di sfruttamento non è più all’origine dello scontro di classe (Ivi, pp. 134-139). Quindi il passaggio al comunismo è posto come una questione immediatamente politica (Ivi, pp,56-58, 196-198, 213), cui seguirebbe una completa ristrutturazione della tecnologia secondo una prospettiva socialista e una conseguente trasformazione del lavoro (Ivi, pp.67-68). In sintesi il motore della storia è la lotta di classe, che ha la sua origine nell’alienazione, non nelle contraddizioni “oggettive” (Ivi, pp.126-129, 141-142, 147, 157).
La terza forma è l’operaismo consigliare tedesco-olandese (Pannekoek, Gorter, Ruhle, Mattick). Ma esso mette in secondo piano il discorso sulle forze produttive, e quando lo affronta rimane nell’ambito di una rigorosa ortodossia marxiana, cioè del materialismo come determinismo storico nella forma della teoria del crollo, ponendo la coscienza come prodotto storico, cioè materiale (Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, Feltrinelli, 1970, pp. 12-14, 14-15, 19-20, 34, 71-72, 91, 115-117, 119-123. Mattick, L’inevitabilità del comunismo, in Critica dei neomarxisti, Dedalo,1979, pp.19, 20, 21, 24, 31, 64, 69). Essendo nato in un periodo rivoluzionario, quello che ha visto sorgere i soviet in Russia, i suoi contenuti sono essenzialmente pratici e riguardano le forme di attuazione dell’autogestione nelle unità produttive, investendo soprattutto la questione del potere, pertanto della democrazia reale. Cioè viene considerato fondamentale il lato politico della teoria rivoluzionaria, quindi l’aspetto sovrastrutturale. Tuttavia riguardo i temi centrali della teoria, nella misura in cui vengono sviluppati, si nota una concordanza maggiore con la corrente francese. Infatti rispetto la tema centrale del lavoro la valutazione è essenzialmente positiva, sia per la divisione del lavoro (Pannekoek, cit., pp. 5, 6-7) che per il carattere del lavoro in quanto realizzazione dell’individuo. Infatti l’essenza alienata del lavoro salariato non intacca il carattere umano del lavoro, che sarà prontamente ripristinato, come carattere però del lavoro sociale, con l’instaurazione del comunismo (Ivi, pp. 7-12). E’ inoltre assente la demonizzazione della scienza e della tecnica, anche se non sfugge il loro aspetto di strumento di dominio della tecnica nel capitalismo (Ivi, pp. 7, 23, 61-63), e viene sottolineato il loro contenuto progressivo rispetto al comunismo, soprattutto le scienze sociali (Ivi, pp. 65-66), mentre però sono ignorati i rischi che si corrono lasciandone la gestione agli specialisti (Ivi, p. 25).
Compatibilità dell’operaismo
L’operaismo italiano, in quanto discendente in linea diretta dalla teoria dell’alienazione, che peraltro estremizza in un senso antitecnologico, è incompatibile con il materialismo storico poiché in conseguenza di tale radicalismo pone il proletariato in un ruolo antistorico, cioè considera unilateralmente solo le conseguenze negative dell’alienazione sociale. Infatti il rapporto del proletariato con la tecnica è posto come netto rifiuto il cui superamento è rinviato al comunismo realizzato e condizionato dalla nascita di una nuova tecnica. Ma l’incompatibilità sta specialmente nell’opposizione al lavoro in quanto tale, da cui deriveranno le teorie oggi molto diffuse del rifiuto del lavoro, della estinzione del lavoro ecc., di cui l’operaismo italiano non è responsabile ma ne costituisce certamente l’origine.
Invece l’operaismo francese è coerente con il materialismo storico, come anche l’operaismo consigliare, nella misura in cui entra nel merito della questione del lavoro. Qui l’operaio, nonostante l’alienazione sociale, mantiene un rapporto se non gratificante almeno dialettico con il lavoro, del quale può constatare la duplice natura, cioè qualcosa che da una parte appartiene al capitale ed è usato per scopi a lui estranei ma dall’altra si presenta come concreta possibilità della propria realizzazione. Se questo è il rapporto del produttore con il lavoro, quello con le macchine, poiché lavora inserito in un sistema di macchine, sarà un rapporto contradditorio ma non di rifiuto radicale. Questo atteggiamento verso il lavoro e la tecnica corrisponde al nascere di una forma di coscienza per la quale “il lavoro diviene la prima necessità per l’individuo” (Marx). Ciò rimane vero anche se il proletariato tende al tempo stesso a sottrarre al capitale quelle che sono le proprie risorse potenziali. In realtà sottrae al capitale non tanto le proprie capacità individuali, non solo quelle, ma soprattutto il lavoro sociale, cioè la cooperazione (che peraltro non gli viene né richiesta, né pagata). Ma siccome può realizzarsi solo come individuo sociale, cioè in primo luogo come produttore collettivo, questa viene in parte erogata, e ciò anche perché altrimenti la produzione verrebbe paralizzata. Tale cooperazione viene sì realizzata ma in misura molto al di sotto delle potenzialità, per cui il proletariato si trova in possesso di una fondamentale forza produttiva ma nell’impossibilità di usarla a causa del rapporto di produzione alienato, quindi è in perenne contraddizione con se stesso. Ma nonostante ciò l’operaio può considerare lo sviluppo delle forze produttive, in particolare della cooperazione, identico alla propria realizzazione individuale, sebbene in forma alienata, e può vedere la soluzione di tale contraddizione solo nel superamento del capitalismo e nella riunificazione delle funzioni direttiva ed esecutiva.
Quindi l’operaismo francese permette di considerare il proletariato come classe progressiva. E’ questa la soluzione operaista del secondo problema. La questione può quindi apparire risolta ammettendo la persistenza di un carattere affermativo del lavoro anche nel proletariato moderno nonostante l’estrema decadenza del lavoro come lavoro esecutivo parcellizzato, in quanto il capitale stesso sviluppando le forze produttive deve promuovere la sua riqualificazione. Ma vi è qui il pericolo di una deriva passatista, connessa al fatto di attribuire illusoriamente al lavoro frammentato e dequalificato nella fabbrica moderna, le caratteristiche dell’epoca precapitalistica, quando l’artigiano era padrone del suo mestiere e presiedeva allo svolgimento di tutto il percorso seguito dal prodotto, dalla materia grezza al prodotto finito e anche alla vendita. Cioè occorre non cedere alla tentazione di rivalutare la divisione del lavoro dei mestieri.
Ma soprattutto rimane la questione fondamentale. L’operaismo francese appare bensì compatibile con il materialismo storico in rapporto alla transizione al comunismo, cioè pone il proletariato come classe progressiva, ma ciò viene raggiunto al prezzo di liquidare la teoria dell’alienazione, cioè di considerarla falsa. Ciò non è possibile, in quanto è la base della soluzione del primo problema quello delle condizioni per la transizione al comunismo. Ma non solo, è la condizione della lotta di classe e più in generale della dinamica della società di classe, determinando la sua nascita, il suo sviluppo e la sua estinzione. Per cui occorre formulare diversamente la dinamica dell’alienazione, cioè mantenerne il carattere conflittuale ma considerarla in un rapporto dialettico col suo carattere di necessità storica.
6. L’OPERAISMO SUPERATO
La prospettiva moderna
Riassumendo, considerare l’alienazione solo come ciò che produce la negazione del capitale da parte del proletariato e quindi della tecnologia, restringe la possibilità di una transizione al comunismo all’ambito di una espropriazione dei mezzi di produzione seguito sviluppo generale delle forze produttive esistenti, cioè alla soluzione marxiana. Ma posto in questi termini ciò si riduce ad affermare che quanto garantisce la radicalità delle rivoluzioni proletarie, nonostante il loro carattere non progressivo dal punto di vista materiale, è che esse in base alla teoria dell’alienazione sono necessariamente le ultime. L’altra possibilità, negando la teoria dell’alienazione, è uno sviluppo qualitativo, considerato possibile come superamento dell’industrialismo, cioè una rivoluzione di tipo borghese, che però sarebbe classista (C2). Quindi nell’ambito del materialismo il problema appare irrisolvibile. Una via d’uscita alle precedenti difficoltà sembrerebbe quella prospettata precedentemente, cioè la teoria dell’alienazione stessa. Infatti se da una parte essa conferisce al proletariato un ruolo storico puramente passivo, dall’altra è fondata sul presupposto che il capitalismo supera l’alienazione naturale e con questa la base materiale su cui è stata costruita la società di classe. Ma al contempo l’alienazione naturale viene sostituita non dal comunismo ma da quella sociale, in quanto essa non produce la condizione di esistenza del comunismo, cioè un rapporto di produzione autogestionario, ma solo la crisi irreversibile della società di classe. Produrre il comunismo è compito del proletariato.
Quindi si constata che ciò che assicura la fine del classismo impedisce l’avvento del comunismo. Infatti, se è vera la teoria dell’alienazione il proletariato non può essere progressivo, quindi secondo il materialismo non può essere rivoluzionario. Cioè in condizioni di alienazione non può creare proprie forze produttive. Ma la teoria dell’alienazione prevede ugualmente la fine del classismo. Se la teoria dell’alienazione è falsa il proletariato può essere rivoluzionario, ma la rivoluzione non determina necessariamente la fuoruscita dalla società di classe. Perciò la prima alternativa è la classica soluzione marxiana, cioè espropriazione e dittatura del proletariato, ma resta sempre il problema che per mutare i rapporti di produzione occorre introdurre nuove forze produttive. La seconda è la soluzione autogestionaria, cioè sviluppo da parte del proletariato di proprie forze produttive seguito da autogestione. E’ la soluzione più coerentemente sociale. Infatti nella prima i produttori non hanno realmente il controllo delle forze produttive, perché queste sono del capitale, quindi possono essere gestite solo mediante la dittatura del proletariato sui capitalisti asserviti, ciò che rende necessaria una organizzazione repressiva, cioè partito, sindacato, polizia, gerarchia di fabbrica, dato che si tratta di forze produttive create dal capitale per il capitale, non per i produttori. Al contrario, nel secondo caso si tratta di forze produttive create dal proletariato per il proletariato, che può quindi gestirle direttamente in quanto forze proprie, con una organizzazione cui partecipano tutti i produttori mediante democrazia diretta.
In realtà ponendo per la teoria dell’alienazione l’alternativa vero o falso, cioè accettandola o respingendola in blocco, non è possibile conciliare materialismo e alienazione. Infatti accettandola si assicura la fine della società di classe ma il proletariato non può essere progressivo pur rimanendo conflittuale. Respingendola il proletariato può essere rivoluzionario ma non conflittuale. Si tratta di una contraddizione irresolubile, per cui occorre riformulare in termini differenti il problema. In ciò l’operaismo suggerisce i termini della soluzione. La questione è che la teoria dell’alienazione si presenta immediatamente come ambigua e le differenti correnti dell’operaismo rispecchiano questa ambiguità di fondo che caratterizza lo sviluppo delle forze produttive sotto il capitale. Da una parte l’operaismo consigliare prospetta uno sviluppo del proletariato come classe dominante in quanto portatore di nuove forze produttive ma al contempo conduce ad una conciliazione di classe. Dall’altra l’operaismo classista ha un esito esattamente opposto in quanto incentiva la lotta di classe ma non pone il proletariato come classe del superamento. Quindi le due tendenze si escludono a vicenda ma al contempo sono e devono essere presenti entrambe perché “possono esistere solo riferite l’una all’altra.” E’ questa una contraddizione che per la logica formale e quindi per il metodo scientifico è insuperabile, per cui si giunge alla conclusione che il materialismo storico non regge al confronto con il metodo scientifico. Chiaramente per poter “salvare” il materialismo storico occorre battere altre strade ma proprio tale discorso del carattere intrinsecamente contradditorio della teoria dell’alienazione ci porta su di un terreno nuovo, più aderente ai fatti della dinamica sociale, quello della dialettica. In essa infatti i principi ed i concetti non si escludono a vicenda pur essendo opposti, e la loro opposizione invece di chiudere il discorso crea una tensione tra i concetti che diviene la base per un superamento della contraddizione in una sintesi che riconcilia tutte le opposizioni. Riprendiamo quindi il discorso da questo punto di vista.
La teoria dell’alienazione descrive essenzialmente il rapporto ambiguo tra società e natura, che nel capitalismo sono rappresentate dalla borghesia e proletariato da una parte e dalle macchine dall’altra. Infatti, la lotta di classe sotto il capitale si svolge in un primo tempo proprio contro le forze produttive sviluppate dal capitale e che il capitale pone come proprie forze. Cioè si ha una fase luddista. Tuttavia a questo, che è il momento della negazione del capitale e della tecnologia da parte del proletariato, segue una fase affermativa in cui il capitale si trova obbligato a reagire a tale resistenza con lo sviluppo di una tecnologia superiore, cioè con lo sviluppo delle forze produttive stesse come strumento di comando sulla forza lavoro. Cioè non solo il capitale si oggettiva, ma oggettiva il rapporto stesso di produzione, trasferendo alle macchine il comando sul lavoro. Ma ciò significa al contempo da una parte lo sviluppo di una forza lavoro conflittuale, dall’altra di una forza lavoro adeguata al livello sempre più progredito raggiunto dalle forze produttive stesse, attraverso una divisione del lavoro non più parcellare e gerarchica, ma qualificata ed orizzontale. I due processi sono compresenti e ciascuno non può esistere senza l’altro. Ciò comporta un progressivo mutamento del rapporto dei produttori con le macchine, quindi con il capitale. Inizialmente esse sono forze del capitale, quindi strumenti di coercizione nei confronti del proletariato. Con la fine dell’alienazione naturale e il passaggio a quella sociale la borghesia perde il suo dominio sulle macchine, almeno quello pratico, in quanto perde la sua funzione storica, divenendo classe parassitaria, e questo dominio passa al proletariato. In modo simile il capitale ha una funzione progressiva in quanto riunisce grandi masse di lavoratori organizzandoli in un processo di produzione collettivo, costringendoli ad abbandonare l’individualismo piccolo borghese, sia assorbendo le loro piccole attività economiche indipendenti ma asfittiche, sia abituandoli a cooperare (Il Capitale, I, VII, 24, 7). Inizialmente ciò è il risultato di una imposizione che dà origine al luddismo e in generale al sabotaggio, poi diviene la premessa necessaria all’autogestione. E’ questo un processo in cui viene mantenuto il rapporto conflittuale, ma gli attori si evolvono insieme alla struttura materiale. Perciò alla negazione segue la negazione della negazione, cioè uno sviluppo quantitativo delle forze produttive che diviene qualitativo e un parallelo sviluppo qualitativo del proletariato che ne fa una classe nuova, qualitativamente diversa dal proletariato di fabbrica originario. Come del resto è necessario perché l’approdo a una società comunista significa anche l’abbandono di ogni illusione ideologica e il sorgere dell’autocoscienza. E questo è certamente quanto si può osservare nel capitale moderno, dove sono evidenti i segni di un mutamento qualitativo in atto e di una realtà di classe corrispondente.
In conclusione quando si afferma che il capitale supera l’alienazione naturale questo implica una trasformazione sociale profonda e contradditoria che coinvolge profondamente e contraddittoriamente il proletariato. Questo sviluppo pone le premesse per la trasformazione del proletariato in classe progressiva, ma si tratta pur sempre di sviluppo capitalistico. Si tratta in realtà di due alternative contrapposte. Infatti alla base di tutte le precedenti considerazioni sta il carattere ambivalente della teoria dell’alienazione. Essa è il fondamento di entrambe le forme dell’operaismo, quindi descrive due esiti possibili della lotta di classe. Infatti l’alienazione sociale può produrre nel proletariato due opposte reazioni. O il rifiuto non della loro condizione di salariati ma quella di produttori, che conduce al rifiuto non dello sfruttamento ma del lavoro in quanto tale. Oppure può condurre ad una critica del lavoro non solo come rapporto giuridico con il capitale, ma della forma materiale in cui si presenta nel processo di lavoro capitalistico, che è ciò che determina la conflittualità (in primo luogo la divisione del lavoro parcellare). Tale critica permette al proletariato di sviluppare una propria forma di processo lavorativo, quindi di creare una propria forma di forza produttiva che possa far valere nella sua lotta contro il capitale e che gli permette di porsi come classe egemone su basi materiali superiori.
Segnali di una emancipazione
Quindi il punto fondamentale è se la storia recente ha visto effettivamente sorgere una nuova forza produttiva. L’idea più ovvia in proposito è quella dello sviluppo dell’informatica e delle sue conseguenze nella nascita di un nuovo modo di produrre. Ma se si vuole individuare qualcosa di veramente rivoluzionario occorre ampliare lo sguardo e considerare l’informatica come l’aspetto più notevole del recente sviluppo di una nuova organizzazione della produzione, sebbene non realmente tale ma sviluppo quantitativo di una tendenza precedente che diviene mutamento qualitativo, sviluppo che sta diventando il paradigma dei processi produttivi più avanzati. Questa tendenza considera la produzione non come risultato della manipolazione diretta di materia e strumenti da parte del produttore, ma come un modo di produrre dove la “interposizione dell’utensile tra sé e l’oggetto di lavoro” viene sviluppata all’estremo, considerando produzione reale sempre più quella delle macchine automatiche e programmabili, e la produzione di queste come risultato della produzione dei produttori stessi. Tutto ciò è il risultato di due nuove forze produttive, la scienza applicata come servizi alla produzione e i servizi sociali intesi come produzione di forza lavoro qualificata. Quindi la nuova forza produttiva va individuata nei servizi in quanto lavoro indiretto, cioè lavoro cognitivo e relazionale dispiegato, pertanto lavoro sociale totalmente sviluppato.
La classe latrice di questa forza produttiva è quella dei tecnici, cioè dei produttori indiretti che in effetti si distingue da quella classica dei produttori diretti, la vecchia classe operaia. per il fatto che non è stata spossessata del controllo sul processo di lavoro. Infatti il processo precedente, fondato sul lavoro diretto è stato sostituito sempre più da processi automatici, che costituiscono il processo lavorativo moderno, fondato sul lavoro indiretto dei tecnici, non sostituibile con macchine. La questione è se un processo di lavoro automatico può essere creato automaticamente: chiaramente si tratta di una contraddizione in termini. Una macchina può essere “intelligente” ma questa deve essere posta in essa dall’esterno, come intervento umano. Inoltre, per quanto concerne la collocazione territoriale, si assiste ad un processo analogo a quanto è accaduto alla borghesia che prima aveva raggiunto una sua autonomia sviluppando un proprio ambiente separato da quello della campagna, l’area urbana come proprio territorio, separandosi poi anche dagli artigiani tradizionali, la piccola borghesia feudale chiusa nelle corporazioni e nei suoi limitati privilegi. Così anche per la classe dei servizi è apparso necessario separarsi dal mondo della produzione corrente, cioè dall’industria tradizionale, quella del lavoro diretto, e trovare l’ambiente adeguato al suo sviluppo. Essa lo trova nel territorio, nelle sterminate periferie degli antichi centri urbani che, saldandosi quasi senza soluzione di continuità con i piccoli centri di provincia, costituiscono in realtà grandi conurbazioni dove si è creato un nuovo paesaggio che non è più ormai urbanisticamente né città né campagna, dove l’attività non è né produzione né consumo, e il tempo né tempo di lavoro né tempo libero. La figura sociale corrispondente è in positivo quella del professionista “free lance”, dotato di una propria qualificazione derivante da una vasta e multiforme esperienza e da una formazione continua in più campi specifici, esperto in relazioni umane così come delle tecnologie materiali. La sua caratteristica principale è la mobilità e la capacità di adeguarsi rapidamente a nuove situazioni così come a cambiarle. Considerata in negativo questa figura è quella del precario, senza condizioni di esistenza stabili, senza un futuro prevedibile, in balia del mercato non più solo locale ma mondiale. Si tratta di due aspetti contradditori della medesima condizione sociale.
In rapporto allo sviluppo del lavoro sociale questa prospettiva determina una contrapposizione tra la prima e la seconda forma di operaismo, tra conflittualità e partecipazione, tra rifiuto del lavoro alienato e appropriazione reale dei mezzi di produzione. In rapporto alla prima alternativa, quella conflittuale, il proletariato dei tecnici, in quanto classe produttiva, cioè il proletariato moderno, deve farsene carico lottando contro il capitalismo per liberare le forze produttive sociali (materiali: le macchine; intellettuali: la scienza; in sintesi, la cooperazione) dalla falsa razionalità capitalistica, cioè dalla sua duplice natura di attività sociale e insieme di fine privato. Ma queste forze, che in estrema sintesi si riassumono nell’automazione e nei servizi sociali, si sono sviluppate a tal punto da costituire un nuovo modo di produzione.
In questa lotta la cooperazione è l’arma decisiva in mano al proletariato, come la scienza lo fu per la borghesia, poiché, la cooperazione è una forza produttiva di cui il proletariato ha effettivo possesso, sia individualmente che collettivamente, della quale non può essere espropriato e dalla quale il capitale non può prescindere. Ciò in quanto la cooperazione è non solo la principale forza produttiva ma proprio per questo la forza materiale che determina e crea la società. La scienza è stata l’arma che ha permesso alla borghesia di scalzare il dominio feudale, ma con lo sviluppo dell’industria questa forza produttiva viene soffocata. Inoltre, dopo che la borghesia ha cessato di avere un ruolo innovativo nella produzione, cioè dopo aver creato la cooperazione planetaria, essa ha un ruolo parassitario in quanto proprietà che si limita a incamerare profitti. Ora la scienza è prodotta come teoria e gestita come tecnica dal proletariato moderno, quello dei tecnici il cui lavoro ha assunto la forma di servizio. Ma l’asservimento dei produttori e gestori (indiretti: servizi alla produzione, indiretti di secondo grado: servizi sociali) di tale forza produttiva è un freno al suo sviluppo. Un freno oggettivo perché il capitale promuove uno sviluppo selettivo, cioè coerente con i suoi fini, ma anche soggettivo, perché si tratta di un prodotto collettivo, che necessita per gli individui coinvolti di libere relazioni sociali. E’ precisamente in ciò che si configura il principale impedimento che il capitale frappone allo sviluppo delle forze produttive sociali. Infatti questo può avere luogo solamente e necessariamente nella libertà ed universalità delle relazioni sociali. Questo è palesemente necessario per lo sviluppo della conoscenza, così come dei servizi sociali, che sono tutti, in ultima analisi, servizi alla persona. L’assenza del profitto, quindi l’interesse generale come finalità sociale, sono divenuti forze produttive. Questo carattere delle attuali forze produttive è divenuto tangibile proprio con l’integrazione che nel ciclo capitalistico si è verificata tra produzione e consumo. Ciò appare conseguenza del passaggio al lavoro indiretto, cioè ai servizi come produzione dei fattori di produzione: macchine e forza lavoro qualificata, quale ambito egemone del lavoro produttivo. Ambito che è quello dei servizi al consumo per la riproduzione della forza lavoro e dei servizi alla produzione come produzione dei mezzi di produzione, dove il lavoro diretto decade (da cui l’ideologia della fine del lavoro, del rifiuto del lavoro, etc.).
Ma il proletariato deve andare oltre alla semplice appropriazione delle forze produttive del capitale. Esso deve criticarle in quanto forze che sono proprie del capitale, e che sono per questo gestibili solo dal capitale. Possono essere ristrutturate ma solo parzialmente e con gravi rischi per l’autogestione proletaria, sia perché è necessario affidarsi ai tecnici capitalisti, sia perché sono forze le cui caratteristiche intrinseche sono quelle di essere finalizzate allo sfruttamento del proletariato. Il proletariato deve muovere una critica radicale su tali forze, e partendo da essa deve procedere alla creazione di proprie forze produttive interamente nuove di cui abbia il completo dominio. Solo così può porsi come classe egemone e procedere a creare una società emancipata. L’alternativa è sottostare all’aspetto negativo dell’alienazione, che comporta un difficile e improbabile percorso che parte dalle rovine del capitalismo per approdare in un lasso di tempo imprecisato, ad un comunismo nato da una dittatura.
La sintesi
Pertanto, in quanto tale la prima forma di operaismo deve essere considerata superata, in quanto antistorica. Infatti essa riflette un rifiuto immediato e radicale della tecnica, di tipo luddista, in quanto fonte di disoccupazione e lavoro come asservimento ai ritmi delle macchine. Questa corrente costituisce l’ideologia di quella forma di coscienza corrente all’epoca in cui la tecnica era posseduta direttamente dai capitalisti stessi e successivamente dalla classe media. Tale ostracismo implica la negazione di qualsiasi ruolo progressivo al proletariato (almeno secondo la corrente nozione di progresso, e non si voglia chiamare tale la reazione, quale è l’uso corrente) e può terminare solo in un rifiuto radicale del mondo attuale, concepito non come contradditorio, cioè un mondo nel quale “la mano che ferisce è quella che risana”, ma come pura negatività, quindi come realtà non dialettica, priva di superamento, da rifiutare nichilisticamente, per creare arbitrariamente una realtà ex novo, cioè una utopia classica dove viene formulato un progetto fondato su un profetico “dover essere”, di fatto dogmatico e settario, cioè non libero e universale. Tuttavia tale forma di operaismo non può essere completamente abbandonata in quanto se non considera il proletariato come portatore di nuove forze produttive lo pone come portatore della conflittualità, cioè della lotta di classe. Quindi esprime un aspetto del carattere proletario imprescindibile.
La seconda forma di operaismo si radica storicamente in una prospettiva progressiva, cioè nella seconda rivoluzione industriale, che segna la vera nascita della scienza applicata, che in precedenza aveva una esistenza più che altro teorica ed accademica, e aveva accompagnato l’ascesa della borghesia soprattutto sul piano ideologico, mentre la prima rivoluzione industriale aveva avuto carattere prevalentemente empirico. Così anche segna la nascita, oltre che della scienza applicata (macchine utensili, poi automazione), dell’organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo, poi fordismo), e dello stato sociale. Forze produttive queste che promuovono la trasformazione della parte più avanzata del proletariato in addetti ai servizi, cioè in classe del lavoro indiretto.
Anche questa prospettiva non è esente da contraddizioni. Da una parte lo sviluppo delle forze produttive non esce del tutto dall’orizzonte dell’industrialismo, quindi occorre considerare fino a che punto si tratta di forze realmente nuove e pertanto di un mutamento realmente qualitativo. Ma soprattutto tale operaismo autogestionario può arretrare verso il riformismo, come è avvenuto con la rivoluzione consigliare in Germania. Quindi tale operaismo deve essere superato anch’esso, come del resto lo è storicamente. Infatti come la conflittualità porta allo sviluppo delle forze produttive, così tale sviluppo sfocia nella conflittualità. Dunque questi due aspetti della lotta di classe sono sempre compresenti e si trasformano continuamente l’uno nell’altro. Le due forme di operaismo, quella conflittuale e quella gestionale, li esprimono entrambi, però separandoli e talvolta contrapponendoli. In realtà non possono essere scissi in quanto nella realtà sociale uno pone sempre l’altro.
Quindi la contrapposizione tra le due forme di operaismo non ha ragione d’essere. Perciò la teoria dell’alienazione posta in termini dialettici risolve entrambi i problemi sollevati dal materialismo storico e quindi lo completa, superando una contraddizione che in termini di materialismo scientifico è irrisolvibile. Ciò solleva la questione del rapporto tra metodo scientifico e dialettica, fino a che punto sono compatibili, ma non è qui il luogo per affrontare tale questione.
Valerio Bertello
Torino, aprile 2013.
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